La terapia dell’IADC si colloca nel solco tracciato dalla Teoria dell’Attaccamento, la più importante tradizione psicologica di riflessione teorica e di ricerca empirica su come gli esseri umani rispondono quando si sentono separati dai propri cari, li perdono o percepiscono la minaccia che tali eventi possano accadere. Come affermava lo psicoanalista inglese John Bowlby, che diede inizio a questo modello, il bisogno affettivo dell’altro significativo e il legame con lui ci accompagna tutti dalla culla alla tomba.
La Teoria dell’Attaccamento ha studiato molto il lutto, con i suoi stadi e le sue diverse varianti. In particolare, ha messo a fuoco come il legame affettivo con la persona cara perdura anche dopo la sua morte. Molti studi hanno confermato questa idea. Si tratta di ricerche condotte su vedovi e vedove, bambini, adolescenti, genitori. John Bowlby, grazie alla sua innovativa teoria fu il primo a rendersi conto dell’importanza che le after death communication hanno per chi era stato privato della persona amata. Egli affermava infatti: “Non vi è ragione di considerare queste varie esperienze come insolite e sfavorevoli”. E ancora: “In realtà i risultati sperimentali a proposito sia dell’alta incidenza di una sensazione continuata della presenza del defunto, sia della sua compatibilità con un esito favorevole, non confermano il passo molto noto e spesso citato di Freud: ‘Al lutto spetta un compito psichico ben determinato: deve staccare dai morti i ricordi e le aspettative dei superstiti’ “.
Pertanto vivere ancora un legame con il defunto può essere parte del buon esito del lutto e non necessariamente un tentativo di preservare anacronisticamente la relazione con lui. Quel che fa la differenza non è l’essere o no ancora in relazione con la persona amata, ma piuttosto la modalità con cui si realizza tale relazione. In particolare è cruciale l’esistenza o meno della consapevolezza profonda che il proprio caro non è più in vita biologica e l’accettazione di questo tragico stato di cose. I legami quindi permangono, ma si trasformano ed evolvono.
Si tratta di un processo di sviluppo che presenta un quadro molto diverso rispetto a quello del lutto cronico, che rappresenta una versione indefinitamente estesa della fase di struggimento e ricerca che caratterizza il lutto sano. A volte il lutto cronico si accompagna con la cosiddetta “mummificazione”, ovvero la conservazione della casa così com’era prima della morte del coniuge o del figlio. Il lutto cronico viene favorito da alcune circostanze particolari, come la morte improvvisa del proprio caro, l’assenza di conforto in parenti o amici e una storia personale di quello che viene chiamato attaccamento ansioso e ambivalente alla propria madre, maturato a seguito di una discontinuità delle cure affettive offerte da quest’ultima. La “mummificazione” rivela la convinzione inconscia che il defunto ritornerà e in tale occasione dovrà trovare ogni cosa predisposta per accoglierlo. Stiamo parlando di un quadro molto diverso da quello che invece va riconosciuto come sano e foriero di sanità: il permanere del legame con la persona amata e l’essere ancora in relazione con lei, seppur in un modo diverso dal precedente, cioè adattato alle mutate e irreversibili circostanze.
La terapia dell’IADC riconosce, come la Teoria dell’Attaccamento, il bisogno delle persone che hanno subito una perdita di custodire il legame e mantenere la relazione con i propri cari non più in vita biologica. Al pari della Teoria dell’Attaccamento valorizza le after death communication spontanee, perché le vede come esperienze gravide di significato e di salute. Andando oltre, permette a chi soffre per un proprio caro che è venuto a mancare, di accedere intenzionalmente a queste stesse after death communication e di averle più estese ed articolate. In tal modo l’IADC promuove l’emergenza di nuove convinzioni sulla perdita e così fornisce un contributo essenziale all’elaborazione del lutto.